martedì 6 gennaio 2009

Capitolo VI: Il sostituto procuratore del re

Di fronte alla fontana delle Meduse, in rue du Grand-Cours, in una delle antiche abitazioni dell’architettura aristocratica costruite da Puget, nello stesso giorno e alla stessa ora si festeggiava un altro pranzo di fidanzamento. Ma gli attori di questa scena, invece che gente del popolo, marinai e soldati, provenivano dalla più alta società marsigliese. Erano tutti magistrati ora senza occupazione, dimessi dalle loro cariche sotto l’usurpatore; vecchi ufficiali disertori passati nelle file dell’armata di Condé; giovani cresciuti dalle loro famiglie insicure della propria sicurezza, nonostante l’aver mandato quattro o cinque sostituti pagati al servizio militare, in odio all’uomo che cinque anni d’esilio hanno reso un martire e quindici anni di Restaurazione un dio. Erano tutti a tavola e la discussione era piuttosto animata, accesa da tutte le vicissitudini e le idee dell’epoca, tanto più terribili e violente nel Mezzogiorno, dove da cinquecento anni l’astio per la religione rafforza quello politico. L’imperatore, sovrano dell’isola d’Elba dopo esserlo stato di una parte di Mondo, con adesso cinque o seimila sottomessi dopo che era stato gridato «Viva Napoleone!» da centoventi milioni di sudditi e in dieci lingue diverse, in quella conversazione era trattato come uomo finito che aveva perso per sempre la Francia e il trono.
I magistrati sottolineavano i suoi errori politici, i militari discutevano di Mosca e di Lipsia; le donne del suo divorzio da Joséphine. A quel sistema di nobiltà realista, felice e trionfante non per la caduta dell’uomo ma per l’eliminazione del principe, sembrava che la vita ricominciasse, che si stesse uscendo da un brutto sogno. Un vecchio, decorato con la croce di Saint-Louis, si alzò e invitò i presenti a un brindisi alla salute di Louis XVIII; era il marchese di Saint-Méran. Il brindisi, che ricordava insieme l’esiliato di Hartwell e il sovrano pacificatore della Francia intera, la gioia fu grande, i bicchieri vennero alzati alla maniera inglese, le donne si tolsero di dosso i mazzetti di fiori e li appuntarono sulle decorazioni. Fu una scena quasi poetica. «Dovrebbero ammetterlo, se fossero qui – disse la marchesa di SaintMéran, una donna dallo sguardo freddo, le labbra sottili, un modo aristocratico e ancora elegante nonostante i suoi quarantatré anni – dovrebbero ammetterlo, tutti quei rivoluzionari che ci hanno mandati via e che noi invece lasciamo tranquillamente cospirare nelle nostre dimore, che hanno comprato per quattro pezzi di pane sotto il Terrore; dovrebbero ammetterlo che la vera devozione era la nostra, noi sempre fedeli alla monarchia anche in brutti tempi e loro, al contrario, invocavano il sole nascente e cercavano la loro fortuna mentre noi perdevamo la nostra; dovrebbero ammetterlo che per noi il nostro era davvero re Luigi il Beneamato, mentre per loro l’altro non è mai stato altro che l’usurpatore Napoleone il Maledetto; sbaglio Villefort?»
«Cosa dicevate, signora marchesa? Scusatemi, non stavo seguendo il filo della discussione.»
«Via, lasciate stare questi giovani, marchesa – disse il vecchio che aveva proposto il brindisi – stanno per sposarsi e ovviamente devono parlare di cose diverse dalla politica.»
«Perdono, madre – disse una giovane dai capelli biondi e con occhi di velluto immersi in un liquido madreperla – vi lascio subito il signor di Villefort che avevo rubato alla conversazione per un istante. Signor di Villefort, mia madre vi sta parlando.»
«E io sono felice di risponderle, se vuole essere così gentile da ripetere la domanda che mi ha fatto, non ho capito bene.» disse il signor di Villefort.
«Vi perdono, Renée – disse la marchesa sorridendo teneramente, in un modo che stupiva in quel volto asciutto, ma il cuore della donna è fatto così: per quanto inaridisca al vento dei pregiudizi o per le esigenze delle etichette, c’è sempre un angolo tenero e ridente, quello che Dio ha riservato all’amore materno. – Vi perdono… Dicevo, Villefort, che i bonapartisti non avevano né la vostra convinzione, né il vostro entusiasmo, né la vostra dedizione.»
«Oh, signora, ma hanno una cosa che supera tutto questo: il fanatismo. Napoleone è il Maometto d’Occidente. Per tutti questi uomini rozzi, ma di estrema ambizione, non è soo un legislatore e un capo, ma anche un modello, il modello dell’uguaglianza.»
«Dell’uguaglianza! – esclamò la marchesa – Napoleone modello di uguaglianza? E che dire allora di Robespierre? Mi pare che gli togliate il posto per cederlo al Còrso, e mi sembra lo usurpiate.»
«No, madame – disse Villefort – lascio ognuno al suo posto: Robespierre sul suo patibolo in piazza Louis XIV e Napoleone in piazza Vendôme, sulla sua colonna. Solo che il primo sosteneva un’uguaglianza che abbassa, il secondo un’uguaglianza che innalza: uno ha portato i re al livello della ghigliottina, l’altro il popolo al livello del trono. Ma non vuol dire – aggiunse ridendo – che non siano entrambi tremendi rivoluzionari e che il 9 termidoro e il 4 aprile 1814 non siano due giorni felici per la Francia e degni ugualmente di essere festeggiati dagli amici dell’ordine e della monarchia; il fatto però non spiega come mai Napoleone, decaduto definitivamente, spero, abbia ancora i suoi seguaci. Ma che volete, marchesa? Cromwell, che non valeva la metà di quello che è stato Napoleone, aveva ancora i suoi amici!»
«Sapete che quanto dite, Villefort, odora di rivoluzione tremendamente? Ma vi perdono: non si può nascere da un giacobino senza conservare qualcosa della propria origine.»
Un caldo rossore pervase la fronte di Villefort.
«Mio padre era un girondino, signora – disse – è vero; ma non ha votato per la morte del re, è stato proscritto dallo stesso Terrore che proscriveva voi, ed ha anche rischiato che la sua testa cadesse sullo stesso patibolo da cui cadde la testa di vostro padre.»
«Sì – disse la donna senza alcun turbamento per il cruento ricordo – ma sarebbe stato per idee diametralmente opposte; e lo prova il fatto che tutta la mia famiglia è rimasta fedele ai principî anche quando era in esilio, mentre vostro padre non ha esitato a schierarsi con la nuova reggenza: prima il cittadino Noirtier è stato girondino, poi il conte Noirtier è diventato senatore.»
«Madre mia, madre mia – disse Renée – avevamo deciso, certo ricordate, di non parlare più di questi brutti ricordi.»
«Signora – rispose Villefort – mi unisco alla signorina di Saint-Méran per chiedere umilmente di dimenticare quello che è stato. A che pro discutere di cose davanti alle quali la stessa onnipotenza di Dio è impotente? Dio può modificare il futuro, ma certo non può modificare il passato. Quello che invece è concesso a noi uomini è, se non eliminarlo, almeno stenderci sopra un velo d’oblio.
Io non solo ho rinnegato le idee, ma anche il nome di mio padre! Mio padre era, forse lo è ancora, bonapartista, e si chiama Noirtier; io sono realista e mi chiamo Villefort. Lasciate essiccare nel vecchio tronco quanto rimane della linfa rivoluzionaria e guardate, mia signora, solo il ramo che si allontana da quel tronco senza potere, e quasi dirò senza volere, staccarsene del tutto»
«Eccellente, Villefort – disse il marchese – bravo, bella risposta! Anch’io ho sempre chiesto alla marchesa di dimenticarsi del passato, ma senza successo; spero sarete più fortunato di me!»
«Ma sì, va bene – disse la marchesa – scordiamoci il passato, non chiedo di meglio; ma che almeno Villefort sia deciso per il futuro. Non dimenticate, Villefort, che abbiamo garantito per voi presso Sua Maestà, e che il re stesso ha voluto dimenticare il passato dietro nostra raccomandazione – gli tese la mano – come io dimentico dietro la vostra preghiera. Soltanto, se vi cadesse tra le mani qualche oppositore, sappiate che si tengono gli occhi ben aperti su di voi, dato che provenite da una famiglia che non è estranea a relazioni proprio con quegli oppositori.»
«A dire il vero, signora – disse Villefort – il mio ruolo e soprattutto il tempo in cui viviamo mi obbligano ad essere severo. E lo sarò. Ho già dovuto affrontare qualche accusa politica, e in questo senso ho già dato le mie prove. Purtroppo non siamo ancora alla fine»
«Credete?» disse la marchesa.
«Temo. Napoleone dall’isola d’Elba non è così lontano dalla Francia; la sua presenza quasi in vista delle nostre coste ravviva la speranza dei suoi partigiani. Marsiglia è piena di ufficiali a mezza paga che ogni giorno cercano contrasti con i rappresentanti della monarchia al minimo pretesto; in questa situazione nascono duelli al di qua, tra persone di classe elevata, e assassinî al di là, tra gente del popolo»
«Di certo – disse il conte di Salvieux, vecchio amico dei Saint-Méran e ciambellano del conte d’Artois – sapete che la Santa Alleanza lo trasferirà»
«Sì, se ne discuteva alla nostra partenza da Parigi. – disse il signor di Saint-Méran – E dove lo mandano?» «A Sant’Elena.»
«A Sant’Elena! Che cos’è?» chiese la marchesa.
«Un’isola a duemila leghe da qui, al di sotto dell’equatore.» rispose il conte.
«Alla buon’ora! Come dice Villefort, è una vera pazzia aver lasciato un uomo simile tra la Corsica, dove è nato, e Napoli, dove regna ancora suo cognato, e per di più di fronte all’Italia, di cui voleva fare un regno per il figlio!»


[Nel testo orginale: «À la bonne heure! Comme le dit Villefort, c'est une grande folie que d'avoir laissé un pareil homme entre la Corse, où il est né, et Naples, où règne encore son beau-frère, et en face de cette Italie dont il voulait faire un royaume à son fils. », l’ultima parte della frase non è stata tradotta nella nostra edizione di riferimento]



«Malauguratamente – disse Villefort – noi abbiamo i trattati del 1814, e non si può toccare Napoleone senza venir meno a quei trattati»

«Ebbene, verremo meno  – disse de Salvieux – Ha avuto la stessa sottiliezza, lui, quando si trattò di far fucilare lo sventurato duca d’Enghiem.»
«Sì – disse la marchesa – è deciso, la Santa Alleanza libererà l’Europa da Napoleone, e Villefort libererà Marsiglia dai suoi partigiani. Il re regna o non regna… se regna, il suo governo dev’essere forte e i suoi agenti inflessibili; è l’unico modo per prevenire il male»
«Sfortunatamente, signora – disse Villefort – un sostituto procuratore del re è chiamato all’azione quando il male è già stato fatto»
«Allora sta a lui ripararlo.»
«Potrei aggiungere, signora, che noi non ripariamo il male: ci limitiamo a vendicarlo.»
«Oh! signor Villefort – disse una bella ragazza, figlia del conte di Salvieux e amica di Renée – cercate dunque di farci assistere ad un bel processo mentre siamo a Marsiglia! Non ho mai visto una corte d’assise e si dice che sia molto interessante e curiosa.»
«Effettivamente è molto curiosa, signorina – disse il sostituto – perché al posto di una tragedia inventata si rappresenta un dramma vero e reale; al posto di dolori simulati ci sono dolori veri. Calato il sipario, quell’uomo che si vede là, invece di tornare a casa, di andare a cenare in famiglia e di andare a dormire tranquillo per rifare la stessa scena il giorno seguente, ritorna in prigione, dove il più delle volte trova il boia. Vedete bene che per le persone impressionabili che cercano emozioni non c’è spettacolo che si possa paragonare a questo. State tranquilla, signorina, se si presenterà l’occasione, ve lo mostrerò dal vero.»
«Ci fa venire i brividi… e ride!» disse Renée impallidendo.
«Che volete… è un duello… Ho già richiesto e ottenuto in cinque o sei casi la pena di morte contro alcuni imputati politici… ebbene, chissà quanti pugnali in questo momento vengono affilati nelle tenebre o sono già pronti contro di me!»
«Oh, mio Dio! – disse Renée sempre più pallida – parlate seriamente, Villefort?»
«Non si può parlare più seriamente, signorina. – rispose il giovane magistrato con un sorriso sulle labbra – E con i bei processi che la signorina desidera per soddisfare la sua curiosità, e che io cerco per soddisfare la mia ambizione, la situazione non farà che peggiorare. Tutti questi soldati di Napoleone, abituati ad andare alla cieca contro le pallottole nemiche, credete che ci penseranno due volte a bruciare una cartuccia o ad imbracciare la baionetta? Penseranno di più prima di uccidere un uomo che credono un loro nemico personale che prima di uccidere un russo, un austriaco o un ungherese che non hanno mai visto? Del resto serve che sia così, perché altrimenti la nostra posizione non si giustificherebbe. Io stesso, quando vedo accendersi nell’occhio dell’imputato il bagliore luminoso della rabbia, mi esalto e acquisto vigore: non è più un processo, ma è un combattimento; io lotto contro di lui, lui risponde, io raddoppio; il combattimento si conclude come ogni altro, con una vittoria o una sconfitta. Ecco cos’è un vero dibattimento! È il pericolo che dà origine all’eloquenza! Un accusato che sorride dopo una mia replica mi dà la certezza di aver parlato male, con frasi scialbe, insufficiente. Pensate ora com’è la sensazione di orgoglio che prova un procuratore del re convinto della colpevolezza dell’accusato, quando vede il reo avvilirsi e annientarsi sotto il peso delle prove e i fulmini della sua eloquenza! Quella testa si abbassa, quella testa cadrà.»
Renée emise un gemito.
«Questo sì che è parlare!» disse uno dei convitati.
«Ecco l’uomo che serve oggi!» disse un altro.
«È vero – disse un terzo – nel vostro ultimo processo siete stato superbo, mio caro Villefort. Mi riferisco a quell’uomo che aveva ucciso suo padre. Ebbene, voi avete ucciso lui con le vostre parole prima che lo toccasse il boia.»
«Oh! dei parricidi – disse Renée – poco mi interessa, non ci sono supplizi abbastanza grandi per gente di tele fatta, …ma degli infelici accusati politici!»
«Degli accusati politici, Renée! – esclamò la marchesa – Di loro interessa ancora meno, perché il re è il padre della nazione, e voler rovesciare o assassinare il re significa voler uccidere il padre di trentadue milioni di uomini.»
«Ma… Villefort – disse Renée – mi promettete di essere indulgente con coloro che vi raccomanderò?»
«State tranquilla – disse Villefort con un sorriso affettuoso – prepareremo insieme le requisitorie.»
«Mia cara – disse la marchesa – occupatevi dei vostri colibrì, dei vostri cani e dei vostri nastri, e lasciate che il vostro futuro sposo faccia il suo compito. Oggi le armi riposano e sono in auge le toghe; c’è a proposito un motto latino di grande profondità»


[Nel testo: «Ma chère - dit la marquise - mêlez-vous de vos colibris, de vos épagneuls et de vos chiffons, et laissez votre futur époux faire son état. Aujourd'hui, les armes se reposent et la robe est en crédit; il y a là-dessus un mot latin d'une grande profondeur. »]


«Cedant arma togae» disse Villefort inchinandosi.
«Non osavo parlare latino» rispose la marchesa. [assente nella versione di riferimento]
«Avrei preferito foste un medico, – riprese Renée – l’angelo sterminatore, anche se angelo, fa sempre paura.»
«Cara Renée!» mormorò Villefort accompagnando le parole con uno sguardo d’amore.
«Figlia mia – disse il marchese –Villefort sarà il medico morale e politico di questa provincia; credetemi, questa è una bella parte da rappresentare.»
«E sarà il modo per far dimenticare la parte che invece ha rappresentato suo padre.» aggiunse l’incorreggibile marchesa.«Signora – riprese Villefort con un mesto sorriso – ho già avuto l’onore di dirvi che mio padre ha, o almeno spero, abiurato gli errori del passato, che è ora un amico zelante della religione e dell’ordine, forse anche più di me, perché lui lo è con pentimento, e io solo con passione.»
E dopo questa frase di somma arte retorica, Villefort, per giudicare l’effetto della sua eloquenza, guardò i convitati, come avrebbe fatto dopo una frase analoga con l’uditorio del suo seggio in tribunale.
«Ebbene, mio caro Villefort – riprese il conte di Salvieux – è esattamente quello che ho detto l’altro giorno alle Tuileries al ministro della casa reale che mi chiedeva spiegazioni sulla singolare unione tra il figlio di un girondino e la figlia di un ufficiale dell’armata di Condé; il ministro ha capito molto bene. Questo sistema di fusione è lo stesso di Louis XVIII. Così il re, che senza che lo sapessimo stava seguendo la conversazione, ci ha interrotto dicendo: “Villefort” – notate bene che il re non ha pronunciato il cognome Noirtier, anzi ha insistito su quello di Villefort – “Villefort – ha dunque detto il re – farà una bella carriera; è un giovane già maturo, che mi soddisfa totalmente. Vedo con favore che il marchese e la marchesa di Saint-Méran lo prendano come genero e avrei suggerito io stesso questa unione se non fossero venuti loro per primi a chiedermi il permesso di concluderla”»
«Il re ha detto questo?» esclamò Villefort estasiato.
«Ho riportato le sue stesse parole e, se il marchese vuol essere sincero, ammetterà che quanto ho appena detto è esattamente quello che il re disse a lui stesso sei mesi fa, quando gli parlò di un progetto di matrimonio tra sua figlia e voi.»
«Sì, è vero.» disse il marchese.
«Dunque dovrò tutto a questo eccellente sovrano! Cosa potrei non farò per servirlo!»
«Finalmente, – disse la marchesa – così vi voglio: si presenti ora un cospiratore e avrà il suo benvenuto!»
«E io, madre mia – disse Renée – prego il signore che non vi ascolti affatto, e che invii al signor di Villefort solo furti, piccoli fallimenti finanziari e frodi spicciole; solo così potrò dormire tranquilla»
«È come – disse Villefort ridendo – augurare a un medico che gli capitino solo delle emicranie, degli arrossamenti e delle punture di vespe, tutte cose che coinvolgono solo l’epidermide. Se volete invece vedermi procuratore del re, auguratemi il contrario: che io abbia malattie terribili la cui cura rende onore al medico.»
In quel momento, come se il caso avesse aspettato che Villefort formulasse il suo augurio per esaudirlo, entrò un cameriere e gli disse qualche parola all’orecchio. Villefort lasciò la tavola scusandosi e tornò dopo qualche istante, con il volto raggiante e le labbra sorridenti. Renée lo guardò con amore; visto così, con i suoi occhi azzurri, la carnagione un po’ bruna e i favoriti neri che incorniciavano il volto, era davvero un giovane bello ed elegante. Tutta l’anima della giovane sembrava pendere dalle sue labbra, in attesa che spiegasse la causa della sua momentanea assenza.
«Ebbene– disse Villefort – voi, signorina, desideravate avere un medico per marito. Per lo meno ho questa somiglianza con i discepoli di Esculapio (si parlava ancora così nel 1815), di non poter mai dire che un’ora sia tutta mia, e vengono a disturbarmi anche quando sono con voi, e per di più al pranzo del mio fidanzamento.»

[Nel testo: «Eh bien, dit Villefort, vous ambitionniez tout à l'heure, mademoiselle, d'avoir pour mari un médecin, j'ai au moins avec les disciples d'Esculape (on parlait encore ainsi en 1815) cette ressemblance, que jamais l'heure présente n'est à moi, et qu'on me vient déranger même à côté de vous, même au repas de mes fiançailles.»]

«E per che cosa siete stato disturbato, signore?» chiese la bella ragazza con una leggera inquietudine. «Ahimè! Per uno che, se è come mi hanno riferito, è in una gravissima situazione; questa volta si tratta di un caso grave, e la malattia rischia la pena capitale.»
«Oh, mio Dio!» esclamò Renée impallidendo.
«Davvero?» chiesero gli altri all’unisono.
«Sembra sia stato scoperto nientemeno che un complotto bonapartista.»
«Impossibile!» disse la marchesa.
«Ecco la denuncia.» E Villefort lesse:

“Il signor procuratore del Re è avvisato, da un amico del trono e della religione, che tale Edmond Dantès, secondo del bastimento Pharaon, giunto questa mattina da Smirne dopo aver toccato Napoli e Portoferraio, è stato incaricato da Murat di consegnare una lettera per l’usurpatore, e dall’usurpatore di consegnarne un’altra al comitato bonapartista di Parigi. Si avrà la prova del suo delitto arrestandolo poiché si troverà tale lettera nelle sue tasche, in casa di suo padre o nella sua cabina a bordo del Pharaon.”

«Ma – disse Renée – questa altro non è che una lettera anonima, ed è indirizzata al procuratore del re, non a voi.»
«Sì, ma il procuratore del re è assente; in sua assenza la lettera è stata consegnata al suo segretario che è autorizzato ad aprire la corrispondenza. Egli deve aver aperto la lettera, mi ha fatto cercare e, non trovandomi, ha dato gli ordini per l’arresto.»
«Il colpevole è quindi già stato arrestato.» disse la marchesa.
«Cioè l’accusato» puntualizzò Renée.
«Sì, signora – disse Villefort – e, come avevo l’onore di dire poco fa alla signorina, se si trova la lettera, il malato è compromesso gravemente.»
«E dov’è l’infelice?» chiese Renée.
«A casa mia, ad aspettarmi.»
«Andate dunque, amico mio – disse il marchese – non mancate al vostro dovere per trattenervi con noi è il servizio del re che vi attende altrove. Andate dunque dove vogliono che siate.»
«Ah, signor di Villefort – disse Renée supplicandolo – siate indulgente; ricordatevi che è il giorno del vostro fidanzamento!»
Villefort fece un giro intorno alla tavola e si avvicinò alla sedia della giovane, si appoggiò alla spalliera e disse: «Per risparmiarvi l’inquietudine farò il possibile, cara Renée. Ma se gli indizi sono incontestabili e l’accusa si dimostrerà vera, bisognerà pur tagliare quest’erba bonapartista.»
Renée ebbe un brivido alla parola tagliare, perché l’erba che si trattava di tagliare era la testa di un uomo.
«Via, via! – disse la marchesa – non state ad ascoltare questa ragazzina, Villefort; si abituerà.»
E la marchesa tese a Villefort una mano secca che lui baciò, sempre guardando Renée e dicendole con gli occhi: “È la vostra mano che sto baciando, o almeno quella che vorrei che fosse.”
«Tristi auspici!» mormorò Renée.
«In verità, signorina – disse la marchesa, – siete puerile in modo esasperante: vi chiedo cosa abbia a che fare il destino dello Stato con le vostre fantasie sentimentali e la vostra volubilità d’animo…»
«Oh! madre mia!» mormorò Renée.
«Chiedo scusa per la maldestra realista, signora marchesa – disse Villefort – vi prometto di fare il mio mestiere di sostituto procuratore del re coscienziosamente, ovvero sarò terribilmente severo.»
Ma, negli stessi istanti in cui il magistrato rivolgeva queste parole alla marchesa, il fidanzato gettava di nascosto uno sguardo all’amata, uno sguardo che diceva: “State tranquilla, Renée: per il vostro amore, sarò indulgente.”
Renée rispose a quello sguardo con il più dolce dei sorrisi, e Villefort se ne andò con il paradiso nel cuore.


lunedì 5 gennaio 2009

Capitolo V: Il pranzo di fidanzamento

Il giorno dopo fu una bella giornata, il sole si alzò puro e splendente e i suoi primi raggi di un rosso purpureo screziavano le cime spumeggianti delle onde di un meraviglioso color rubino. Il pranzo era stato preparato al primo piano della Réserve, l’osteria con il pergolato di cui abbiamo già fatto conoscenza. C’era una grande sala illuminata da cinque o sei finestre, al di sopra delle quali era scritto, senza che nessuno ne conosca il motivo, il nome di una delle grandi città della Francia; una balconata in legno collegava dall’esterno tutte le finestre.
Benché il pranzo fosse fissato per mezzogiorno, fin dalle undici del mattino la terrazza era percorsa da persone che passeggiavano impazienti. Erano i marinai del Pharaon e qualche amico di Dantès.
Tutti indossavano gli abiti migliori, per fare onore ai fidanzati. Correva voce tra gli invitati dello sposo che gli armatori del Pharaon avrebbero onorato il fidanzamento del secondo; ma questo era un tale onore per Dantès che nessuno osava crederci. Però Danglars, arrivando in compagnia di Caderousse, confermò la notizia; quella stessa mattina aveva incontrato il signor Morrel in persona, che gli aveva assicurato che sarebbe venuto al pranzo alla Réserve. Infatti, un momento dopo il signor Morrel fece il suo ingresso nella sala e fu salutato dai marinai del Pharaon con un evviva e con un mare di applausi.
La presenza dell’armatore era per loro la conferma della voce che già correva, cioè che Dantès sarebbe stato nominato capitano; e siccome Dantès era molto amato a bordo, quelle brave persone facevano capire in quel modo all’armatore che una volta tanto la scelta era in sintonia con i desideri dei subordinati.
Appena il signor Morrel fece la sua comparsa, Danglars e Caderousse furono unanimemente incaricati di andare a cercare i fidanzati: dovevano avvisarli dell’arrivo del personaggio importante il cui arrivo aveva suscitato così grande impressione, e dire loro di affrettarsi.
Danglars e Caderousse partirono di corsa, ma non avevano fatto cento passi che scorsero il piccolo gruppo che si stava avvicinando. Quel piccolo gruppo era composto di quattro ragazze catalane, amiche di Mercedes, che accompagnavano la fidanzata, alla quale Edmond teneva il braccio. Vicino alla futura sposa camminava il vecchio Dantès e dietro di loro camminava Fernand, con un sogghigno sinistro. I due poveri ragazzi erano talmente felici che non vedevano altro che se stessi e quel bel cielo che li benediceva. Danglars e Caderousse svolsero la loro missione di ambasciatori. Poi, dopo aver scambiato una stretta di mano vigorosa e amichevole con Edmond, Danglars andò sedersi vicino a Fernand e Caderousse di fianco al padre di Dantès, ora centro dell’attenzione generale.
Il vecchio indossava il suo bel vestito di seta, ornato di larghi bottoni di acciaio sfaccettati. Le gambe, sottili ma muscolose, erano coperte da magnifiche calze di cotone molto elaborato, probabilmente di contrabbando inglese. Dal suo cappello a tre punte scendevano un nastro bianco e uno azzurro. Si appoggiava a un bastone di legno lavorato e curvo nella parte superiore, come il pedum degli antichi. Pareva uno di quegli elegantoni che nel 1796 si pavoneggiavano nei giardini riaperti del Luxembourg e delle Tuileries.
Di fianco a lui, come abbiamo detto, si era messo Caderousse, che la speranza di un buon pranzo aveva fatto riconciliare con i Dantès, e a cui ormai non rimaneva nella mente che solo un vago ricordo di quanto era accaduto il giorno prima, come quando ci si sveglia al mattino con qualche memoria del sogno fatto la notte.
Danglars, avvicinandosi a Fernand, aveva gettato al catalano imbronciato uno sguardo profondo. Fernand camminava dietro ai fidanzati, completamente trascurato da Mercedes che, con l’egoismo giovanile tanto caro all’amore, aveva occhi solo per il suo Edmond. Fernand era pallido, con improvvisi rossori che lasciavano il passo a pallori sempre più evidenti.
Ogni tanto guardava verso Marsiglia e allora un fremito nervoso e involontario lo percorreva da capo a piedi. Sembrava aspettare o almeno prevedere qualche avvenimento. Dantès era vestito con semplicità. Appartenendo alla marina mercantile indossava un abito tra l’uniforme militare e l’uniforme civile; e con quest’abito il suo bell’aspetto, anche per la gioia e la bellezza della sua fidanzata, appariva superbo. Mercedes era bella come una di quelle greche di Cipro o di Cèos dagli occhi d’ebano e dalle labbra di corallo. Camminava con il passo agile e tranquillo delle andaluse. Una ragazza di città avrebbe forse cercato di nascondere la sua gioia sotto un velo o almeno sotto le palpebre, ma Mercedes sorrideva e guardava tutto ciò che aveva intorno; il suo sorriso e il suo sguardo dicevano palesemente quanto le parole avrebbero faticato: “Se mi siete amici rallegratevi, perché sono davvero molto felice”.
Quando i due fidanzati e i loro accompagnatori furono in vista della Réserve, Morrel scese e andò loro incontro, seguito dai marinai e dai soldati, con i quali era rimasto, confermando la promessa già fatta a Dantès: sarebbe stato il successore del capitano Leclère. Edmond, vedendolo arrivare, lasciò il braccio della fidanzata e lo cedette a Morrel. L’armatore e la ragazza diedero allora l’esempio e salirono per primi la scala di legno che portava alla stanza dove era stato preparato il pranzo. La scala scricchiolò per cinque minuti sotto i passi pesanti dei convitati.
«Padre mio – disse Mercedes fermandosi al centro della tavola – voi starete alla mia destra, alla mia sinistra metterò colui che fino ad ora è stato per me un fratello» e lo disse con una dolcezza che penetrò fino al fondo del cuore di Fernand come un colpo di pugnale.
Le sue labbra si contorsero e sotto il colore scuro del suo viso virile si poté vedere ancora una volta il sangue ritrarsi a poco a poco per affluire al cuore. Intanto Dantès aveva eseguito la stessa manovra: alla sua destra aveva messo il signor Morrel, alla sinistra Danglars, poi con la mano aveva fatto segno che ognuno prendesse posto a suo piacere. Per la tavola circolavano già i salami di Arles, con le carni scure e affumicate, le aragoste con il loro roseo carapace, i ricci di mare che sembrano castagne circondate da una scorza spinosa, le vongole che per i ghiottoni del Mezzogiorno sono buone più delle ostriche del Nord, e tutti qui crostacei delicati che le onde gettano sulla spiaggia sabbiosa e che i pescatori riconoscenti designano con il nome di frutti di mare.
«Che bel silenzio! – disse il vecchio Dantès gustando un bicchiere di vino giallo topazio che papà Pamphile in persona aveva portato da Mercedes – si direbbe che qui ci sono trenta persone che non chiedono altro se non di ridere…»
«Eh, un marito non è sempre allegro» disse Caderousse.
«Il fatto è – disse Dantès, – che sono troppo felice in questo momento. Se è così che intendete, caro vicino, avete ragione. La gioia talvolta fa uno strano effetto: opprime come il dolore»
Danglars osservò Fernand dal cui carattere impressionabile traspariva ogni emozione.
«Andiamo – disse – avete forse qualche timore? Mi sembra al contrario che tutto vada secondo i vostri desideri»
«Ed è proprio questo che mi spaventa  – disse Edmond – a me sembra che l’uomo non sia fatto per raggiungere così facilmente la felicità! La felicità è come quei palazzi delle isole incantate le cui porte hanno i draghi per guardiani: bisogna combattere per conquistarli e io in verità non so quale merito io abbia conquistato per ricevere la ricompensa della felicità di essere il marito di Mercedes»
«Marito, marito… – disse Caderousse ridendo – non ancora, mio caro capitano, prova a vedere per un po’ com’è fare il marito, e vedrai come sarai ricevuto!»
Mercedes arrossì. Fernand si agitava sulla sedia e rabbrividiva al minimo rumore; di tanto in tanto il catalano si asciugava grosse gocce di sudore che gli imperlavano la fronte, come le prime gocce di un urgano.
«In fede mia, vicino Caderousse – disse Dantès guardando l’orologio – non è un grave errore, per così poco. Mercedes non è ancora mia moglie, è vero… Ma tra un’ora e mezza lo sarà»
Tutti gettarono un grido di sorpresa, eccetto Dantès padre, il cui largo sorriso mostrò denti ancora belli. Mercedes sorrise e non arrossì più. Fernand afferrò convulsamente l’impugnatura del coltello.
«Fra un’ora! – esclamò Danglars, anche lui impallidito – … E come?»
«Sì, amici miei – rispose Dantès – grazie alla buona reputazione del signor Morrel, l’uomo al quale dopo mio padre devo di più a questo mondo, tutte le difficoltà possono dirsi appianate: abbiamo fatto le pubblicazioni e alle due e mezzo il sindaco di Marsiglia ci attende al Palazzo della città. Essendo l’una e un quarto, non credo di essermi sbagliato poi molto nel che tra un’ora e trenta minuti Mercedes si chiamerà signora Dantès».
Fernand chiuse gli occhi: una nube di fuoco gli bruciò le palpebre; si appoggiò al tavolo per non cadere, ma nonostante tutti i suoi sforzi non poté trattenere un sordo gemito che si perse nel rumore delle risate e delle felicitazioni degli altri.
«È così che si fa, no? – disse papà Dantès – Vi sembra si possa dire che questo è perder tempo? Arrivato ieri mattina, oggi sposato! I marinai sì che sanno arrivare alla meta!»
«Ma le altre formalità?»
«Il contratto? – disse Dantès ridendo – il contratto è fatto: Mercedes non ha niente, e io nemmeno! Ci sposiamo nel regime della comunione dei beni: non è lungo da scrivere, e nemmeno da pagare!»
Questa risposta provocò una nuova esplosione di gioia e di evviva.
«E quindi quello che crediamo essere un pranzo di fidanzamento – disse Danglars – è in realtà un pranzo di nozze?»
«No – disse Dantès – state tranquilli, non ci perdete nulla. Domani mattina parto per Parigi; cinque giorni per andare e cinque per tornare, un giorno per eseguire coscienziosamente la commissione di cui sono stato incaricato, e il 12 marzo sarò di ritorno. Il 12 marzo, quindi, ci sarà il vero pranzo di nozze»
La prospettiva di un nuovo festino raddoppiò la felicità generale, al punto che papà Dantès, che all’inizio del pranzo si lamentava del silenzio, ora, in mezzo alla conversazione generale, tentava inutilmente di far udire il suo augurio di prosperità ai futuri sposi. Dantès indovinò il pensiero di suo padre e ringraziò con un sorriso pieno d’amore. Mercedes guardò l’orologio della sala e fece un piccolo segno a Edmond. Regnava nella sala, intorno al tavolo, quell’allegria rumorosa tipica della fine dei pranzi della gente di bassa condizione. Chi era poco soddisfatto del suo posto si era alzato da tavola e aveva cercato altri vicini. Tutti si parlavano uno sopra l’altro, e nessuno si preoccupava di rispondere a chi gli faceva domande.
Il pallore di Fernand era passato identico alle guance di Danglars; e il primo sembrava ormai senza vita, un dannato in un lago di fuoco. Si era alzato tra i primi e camminava per tutta la sala, cercando di isolare i suoi orecchi dal rumore delle canzoni e dal cozzare dei bicchieri. Caderousse gli si avvicinò nel momento in cui Danglars, del quale sembrava voler evitare la compagnia, lo raggiungeva in un angolo della sala.
«In verità – disse Caderousse, a cui soprattutto il buon vino di papà Pamphile aveva tolto i resti dell’odio di cui la felicità inattesa di Dantès aveva gettato i germi nella sua anima – in verità Dantès è un galantuomo e quando lo vedo seduto vicino alla sua fidanzata mi dico che sarebbe stato davvero cattivo fargli il brutto scherzo che tramavate ieri»
«Tu stesso hai visto – disse Danglars – che la cosa non è andata oltre alla fantasia. Il povero Fernand era così sconvolto che sulle prime mi aveva fatto pena; ma dal momento che ha scelto di essere il primo testimone alle nozze del suo rivale, non c’è più niente da dire a riguardo»
Caderousse guardò Fernand. Era livido.
«Il sacrificio è tanto più grande – continuò Danglars – in quanto la ragazza è molto bella. Accidenti, che fortunato furbetto è il mio futuro capitano! Vorrei chiamarmi Dantès, anche solo per dodici ore»
«Partiamo? – disse Mercedes – suonano le due e ci aspettano per le due e un quarto»
«Sì sì, partiamo subito» disse deciso Dantès.
In quello stesso istante Danglars, che non perdeva di vista Fernand, fisso al davanzale della finestra, lo vide spalancare due occhi spaventati, alzarsi come per un sussulto e ricadere al suo posto. Quasi simultaneo risuonò per le scale un rumore sordo: il rumore di passi e il brusio confuso di voci, accompagnati dal cozzare di armi, superò le rumorose esclamazioni dei convitati e attirò l’attenzione generale, che si manifestò all’istante con un inquieto silenzio.
Il rumore si fece vicino: risuonarono tre colpi alla porta. Ognuno guardò il proprio vicino con sguardo sorpreso.
«In nome della legge!» gridò una voce vibrante, alla quale nessuno rispose.
La porta si spalancò e un commissario, cinto della sua sciarpa, entrò nella sala seguito da quattro soldati armati e relativo caporale. L’inquietudine cedette ora al terrore.
«Che succede? – chiese l’armatore facendosi avanti, rivolto al commissario che conosceva –Certamente, signore, ci dev’essere un errore»
«Se c’è un errore, signor Morrel – rispose il commissario – state certo che sarà riparato. Intanto porto con me un mandato d’arresto, e anche se eseguo quest’ordine con dispiacere, sono obbligato ad eseguirlo: chi di voi, signori, è Edmond Dantès?»
Tutti gli sguardi ricaddero sul giovane che, di certo scosso ma fermo nella sua dignità, fece un passo avanti e disse: «Sono io, signore, che cosa volete da me?»
«Edmond Dantès – riprese il commissario – in nome della legge siete in arresto»
«Mi arrestate! – disse Edmond con un leggero pallore – ma perché sono in arresto?»
«Io, signore, non lo so; ma voi lo saprete di certo al vostro primo interrogatorio»
Morrel capì che non c’era niente da fare contro l’evoluzione della situazione, almeno per il momento: un commissario cinto della sua sciarpa non è più un uomo, è l’esecutore della legge. Il vecchio invece si precipitò verso l’ufficiale; ci sono cose che il cuore di un padre o di una madre non capiranno mai. Pregò e supplicò, ma lacrime e preghiere non poterono nulla; la sua disperazione era tuttavia così grande che il commissario ne rimase commosso.
«Signore – disse – state tranquillo. Forse vostro figlio ha trascurato qualche formalità di dogana o di sanità e molto probabilmente quando avrà dato le dovute spiegazioni sarà rimesso in libertà»
«Ma tutto questo che significa?» chiese Caderousse aggrottando le sopracciglia a Danglars che fingeva di essere sorpreso.
«E che ne so io? – disse Danglars – Sono nella tua stessa situazione: vedo quello che accade e non ci capisco niente»
Caderousse cercò con gli occhi Fernand: era scomparso. Tutta la scena del giorno prima gli si materializzò nella mente con terribile chiarezza. Si sarebbe detto che la catastrofe riuscisse nel sollevare il velo che l’ubriachezza del giorno prima aveva calato tra lui e la sua memoria.
«Ehi ehi!– disse con voce rauca – sarebbe questa la conseguenza dello scherzo di cui parlavi ieri, Danglars? In questo caso, guai a chi l’avesse messa in atto, perché sarebbe una vera infamia»
«Niente affatto. – esclamò Danglars – Sai bene che invece ho stracciato il foglio»
«Non l’hai stracciato! – esclamò Caderousse – L’hai spiegazzato e gettato in un angolo, non l’hai stracciato!»
«Taci, che non hai visto nulla. Eri ubriaco»
«Dov’è Fernand?» chiese Caderousse.
«E che ne so! – rispose Danglars – Sarà andato a farsi i fatti suoi. Ma invece di occuparci di questo, cerchiamo di consolare i poveri afflitti»
Infatti, mentre aveva luogo questa conversazione, Edmond aveva stretto sorridente la mano a tutti gli amici e si era costituito prigioniero dicendo: «State tranquilli, l’errore sarà presto chiarito e probabilmente non arriverò neppure alla prigione»
«Oh, certamente, ne risponderei io» disse Danglars che in quel momento si stava avvicinando, come abbiamo detto, al gruppo principale. Dantès scese la scala preceduto dal commissario di polizia e circondato dai soldati. Una carrozza con lo sportello aperto aspettava davanti alla porta; salì e due soldati e il commissario dopo di lui. Lo sportello si richiuse, e la carrozza riprese la via di Marsiglia.
«Addio Dantès! addio Edmond!» gridava Mercedes sporgendosi dalla terrazza.
Il prigioniero intese quest’ultimo grido, uscito come un singhiozzo dal cuore lacerato della fidanzata; si sporse a sua volta dalla portiera e gridò: «Arrivederci, Mercedes!» e scomparve dietro un angolo del forte Saint-Nicolas.
«Aspettatemi qui – disse l’armatore – prendo la prima carrozza che vedo e corro a Marsiglia; vi porterò notizie»
«Andate! – gridarono tutti – andate e tornate presto!»
Dopo questa duplice partenza ci fu un momento di terribile stupore che sconfortò coloro che erano rimasti; Il vecchio e Mercedes rimasero isolati per qualche tempo, ognuno assorto nel proprio dolore. Poi i loro occhi si incontrarono; si riconobbero come due vittime colpite dalla stessa sventura e si gettarono l’uno nelle braccia dell’altra. In quel momento rientrava Fernand, che si versò un bicchiere d’acqua, lo bevve e andò a sedersi su una sedia. Il caso volle che Mercedes, uscita dalle braccia del vecchio, si andasse a sedere proprio lì di fianco. Fernand, con un movimento totalmente incontrollato, spostò indietro la propria sedia. «È stato lui» disse Caderousse Danglars, che non aveva perso di vista il catalano.
«Non credo – rispose Danglars – è stupido come un animale; in ogni caso, il colpo ferisca chi l’ha sferrato»
«Non hai detto niente su chi lo ha consigliato» disse Caderousse.
«In fede mia, – disse Danglars – se dovessimo essere responsabili di tutto quello che si dice così, all’aria…»
«Sì, se quello che si dice all’aria ricade sulla testa di un innocente!»
Intanto gli altri convitati commentavano in piccoli gruppi l’arresto, ognuno facendo la propria supposizione. «E voi, Danglars – chiese qualcuno – che pensate dell’accaduto?»
«Io – disse Danglars – credo che abbia portato qualche merce proibita»
«In questo caso lo avreste dovuto sapere, visto che siete il contabile della nave»
«Sì, è vero; ma il contabile conosce solo quanto a lui dichiarato: so che abbiamo un carico di cotone, e basta; so che abbiamo ritirato il carico ad Alessandria dal signor Pastret, e a Smirne dal signor Pascal, niente di più»
«Ora mi ricordo – mormorò il povero padre– che ieri mi ha detto di avere una cassa di caffè e una di tabacco per me»
«Vedete – disse Danglars – si tratta di questo: mentre non c’eravamo la dogana avrà fatto dei controlli a bordo del Pharaon e avrà scoperto il contrabbando»
Mercedes non lo credeva affatto; soffocato fino a quel momento il suo dolore, a un tratto scoppiò in lacrime.
«Coraggio, coraggio! Speriamo!» disse papà Dantès senza sapere bene quello che diceva.
«Speriamo!» ripeté Danglars.
«Speriamo» tentò di mormorare Fernand. Ma questa parola lo soffocò; le sue labbra si contrassero e non ne uscì suon alcuno.
«Amici!– gridò uno dei convitati rimasto di vedetta sulla terrazza – amici, una carrozza… Ah! è il signor Morrel! Coraggio, coraggio! Di certo ci porta delle buone notizie»
Mercedes e il vecchio padre corsero incontro all’armatore, che incontrarono sulla porta. Il signor Morrel era pallidissimo.
«Ebbene?» chiesero con una sola voce.
«Ebbene, amici miei – rispose l’armatore scuotendo la testa – la cosa è più grave di quanto potessimo pensare»
«Oh, signore – gridò Mercedes – è innocente!»
«Ne sono convinto – rispose il signor Morrel – ma è accusato…»
«Di che cosa, dunque?» chiese il vecchio Dantès.
«Di essere un agente bonapartista!»
I lettori che hanno vissuto l’epoca in cui accadde questa storia, si ricorderanno quanto terribile fosse l’accusa riferita dal signor Morrel. Mercedes gettò un grido e il vecchio si lasciò cadere su una sedia.
«Ah! – mormorò Caderousse – mi hai ingannato, Danglars. Quello che dicevi essere solo uno scherzo è stato fatto. Ma io non voglio lasciar morire di dolore questo vecchio e questa ragazza; vado da loro a dire tutto»
«Taci, disgraziato! – esclamò Danglars afferrando la mano di Caderousse – o non risponderò della tua vita; chi ti dice che Dantès non sia davvero colpevole? Il bastimento si è fermato all’isola d’Elba, lui è sceso, è rimasto un giorno intero a Portoferraio; se hanno trovato qualche lettera compromettente, potrebbero definire suoi complici coloro che lo hanno difeso»
Caderousse aveva l’istinto rapido dell’egoista e comprese tutta la solidità del ragionamento; guardò Danglars con occhi inebetiti dal timore e dal dolore, e per un passo che aveva fatto in avanti ne fece due indietro.
«Allora aspettiamo» mormorò.
«Sì, aspettiamo – disse Danglars – se è innocente sarà rimesso in libertà; se è colpevole, è inutile compromettersi per un cospiratore»
«Allora andiamocene, non riesco a stare più a lungo in questo posto»
«Sì, vieni – disse Danglars, contento di trovare un compagno di ritirata – lasciamo che risolvano da soli il problema».
E se ne andarono. Fernand, ridiventato il sostegno della ragazza, prese Mercedes per la mano e la ricondusse ai Catalani. Gli amici di Dantès riaccompagnarono ai viali di Meilhan il vecchio quasi svenuto. Ben presto la voce che Dantès era stato arrestato come agente bonapartista si sparse in tutta la città.
«L’avreste mai creduto, mio caro Danglars? – disse il signor Morrel raggiungendo il contabile e Caderousse con la volontà di tornare in fretta in città per avere notizie dirette di Edmond dal sostituto procuratore del re, signor di Villefort, che conosceva un po’ – l’avreste mai creduto?»
«Diamine, signore! – rispose Danglars – ve l’avevo detto che Dantès non si sarebbe mai fermato senza alcun motivo all’isola d’Elba, e come sapete questa puntata mi era sembrata sospetta»
«Ma avete detto a qualcuno, oltre che a me, di questo vostro sospetto?»
«Me ne sarei ben guardato – aggiunse a bassa voce Danglars – sapete bene che a causa di vostro zio Policar Morrel, fedelissimo all’altro e orgoglioso del suo pensiero, voi siete sospettato di rimpiangere Napoleone. Avrei temuto di far del male a Edmond, e anche a voi; ci sono cose che un subordinato deve dire al proprio armatore, ma lasciare nascoste agli altri.»
«Bene Danglars, ottimo – disse l’armatore – avete la testa sulle spalle; per questo avevo pensato anche a voi, nel caso in cui il povero Dantès fosse diventato capitano del Pharaon»
«In che senso, signore?»
«Beh, avevo chiesto a Dantès cosa pensasse di voi e se ci sarebbero stai problemi nel lasciarvi al vostro posto; ho visto qualche tensione tra di voi.»
«E lui cos’ha detto?»
«Che pensava a dire il vero di aver avuto qualche screzio con voi in una certa circostanza non meglio specificata, ma che chiunque avesse la fiducia del suo armatore aveva anche la sua.»
«Che falso!» mormorò Danglars.
«Povero Edmond! – disse Caderousse – era davvero un ragazzo bravissimo!»
«Sì, ma ora – disse Morrel – il Pharaon è senza un capitano.»
«Oh! – disse Danglars – non potendo ripartire prima di tre mesi, c’è da sperare che Dantès venga rilasciato in tempo.»
«Si spera, ma fino al rilascio?»
«Ebbene, fino a quel momento io sono qui, signor Morrel – disse Danglars – sapete bene che so tenere una nave quanto un capitano di esperienza. E poi, incaricando me, non dovrete lasciare a casa nessuno quando Dantès uscirà di prigione: lui riprenderà il suo posto, e io il mio»
«Grazie Danglars – disse l’armatore – è una buona soluzione. Prendete dunque il comando, vi autorizzo, e sorvegliate lo sbarco: nonostante quello che succede alle persone, gli affari devono proseguire»
«State tranquillo, signore; ma sarà possibile almeno vederlo, il buon Edmond?»
«Ve lo dirò tra poco, Danglars; cercherò di incontrare il signor di Villefort e cercare di ottenere qualcosa per Edmond. So che è un realista arrabbiato, ma, diavolo!, anche se realista e procuratore del re, è pur sempre un uomo, e non penso che sia cattivo»
«No – disse Danglars – ma mi hanno detto che è molto ambizioso, e le due cose a volte non si distinguono.»
«Insomma – disse il signor Morrel sospirando – si vedrà; salite a bordo, vi raggiungo.»
E lasciò i due amici per avviarsi verso il palazzo di giustizia.
«Lo vedi – disse Danglars a Caderousse – che verso sta prendendo la storia? Hai ancora voglia di andare a liberare Dantès?»
«No, senza dubbio – disse Caderousse – ma è terribile che da uno scherzo si arrivi a simili conseguenze»
«Diavolo, ma chi è stato? Non tu, non io; è stato Fernand. Tu hai visto che ho gettato quel foglio di carta in un angolo, anzi pensavo di averlo stracciato»
«No, no – disse Caderousse – di questo sono certo: me lo vedo ancora, spiegazzato e appallottolato in un angolo, e vorrei che fosse rimasto là.»
«Cosa ci vuoi fare? Fernand l’avrà raccolto, copiato o fatto copiare, o forse nemmeno questo. Ora che ci penso… oddio! E se avesse spedito la mia lettera? Per fortuna avevo falsificato la scrittura… »
«Quindi tu sapevi che Dantès era un cospiratore?»
«Assolutamente no. Come ho detto, credevo di fare soltanto uno scherzo. Sembra che, come Arlecchino, scherzando io abbia detto la verità»
«È lo stesso – disse Caderousse – non so cosa darei perché questa faccenda non fosse mai capitata, o almeno non ne fossi finito coinvolto. Vedrai che ci porterà sfortuna!»
«Se porterà sfortuna a qualcuno, sarà al vero colpevole, e il vero colpevole è Fernand. Non certo noi. Cosa vuoi che ci succeda? Dobbiamo solo starcene tranquilli, muti su quanto è successo e il temporale passerà senza che cadano fulmini.»
«Amen!» disse Caderousse facendo un cenno di saluto a Danglars e poi andando verso i viali di Meilhan, scuotendo la testa e parlando tra sé come fanno le persone assorte nelle preoccupazioni.
«Bene! – disse Danglars – tutto procede come avevo previsto: eccomi capitano ad interim e poi, se quello stupido di Caderousse starà zitto, capitano effettivo. Resta l’eventualità che la giustizia rimetta in libertà Dantès, ma – aggiunse con un sorriso – la giustizia è la giustizia e in lei confido.»

Saltò in una barca ordinando al conducente di portarlo a bordo del Pharaon, dove lo aspettava, come il lettore ricorda, l’armatore Morrel.

domenica 4 gennaio 2009

Capitolo IV: Il complotto

Danglars seguì con lo sguardo Edmond e Mercedes finché non scomparvero dietro a uno degli angoli del forte Saint-Nicolas; poi, voltandosi, scorse Fernand che era ricaduto sulla panca pallido e fremente, mentre Caderousse balbettava le parole di una canzone da osteria.
«Ecco – disse Danglars a Fernand – questo è un matrimonio che non sembra rendere tutti felici!»
«Ed è la mia disperazione» disse Fernand.
«Dunque ami Mercedes?»
«Da quando ci siamo conosciuti, l’ho sempre amata.»
«E te ne stai là a strapparti i capelli invece di cercare una soluzione! Diavolo! non credevo che la gente della vostra razza si comportasse in questo modo.»
«Cosa vuoi che faccia?» domandò Fernand.
«E che ne so io? C’entro qualcosa? Non sono io, mi sembra, l’innamorato di Mercedes, ma tu. Cercate, dice il Vangelo, e troverete.»
«Avevo già trovato.»
«Che cosa?»
«Volevo pugnalarlo l’hombre, ma lei mi ha detto che se fosse successo qualcosa al suo fidanzato si sarebbe uccisa.»
«Mah, queste sono cose si dicono sempre e poi non si fanno.»
«Non conosci Mercedes: ciò che minaccia, esegue.»
«Imbecille! – mormorò Danglars – che si uccida o no, a me poco importa, purché Dantès non diventi capitano»
«E prima che Mercedes morisse – riprese Fernand con l’accento di una decisione irremovibile – morirei io»
«Questo sì chiama amore! – disse Caderousse con una voce mossa dal vino – se non lo è questo, allora non so più cosa sia!»
«Su – disse Danglars – mi sembri un giovane per bene, e vorrei proprio aiutarti, ma…»
«Sì – disse Caderousse – troviamo il modo.»
«Mio caro – riprese Danglars, – sei quasi completamente ubriaco; finisci la bottiglia e lo sarai del tutto. Bevi e non immischiarti in ciò che facciamo: bisogna essere a mente lucida»
«Io ubriaco? – disse Caderousse – ma via! Potrei berne altre quattro di queste bottiglie! Non sono più grandi di una boccetta di acqua di Colonia. Papà Pamphile, del vino!» E per dare effetto alle sue parole, Caderousse batté il bicchiere sul tavolo.
«Dicevi, dunque?» riprese Fernand aspettando con ansia il seguito della frase interrotta.
«Cosa dicevo? Non mi ricordo. Quest’ubriacone di Caderousse mi ha fatto perdere il filo del discorso.»
«E sono ubriaco quanto vuoi... peggio per quelli che hanno paura del vino! Avranno cattivi pensieri e temono che il vino li faccia parlare - e Caderousse si mise a cantare gli ultimi due versi di una canzone molto in voga a quei tempi - Tutti i malvagi bevono acqua, Lo dimostra il diluvio universale.»
«Dicevi – disse Fernand – che vorresti aiutarmi, ma, hai aggiunto…» «Sì, stavo per dire che per darti una mano basta che Dantès non sposi la donna che ami; e il matrimonio potrebbe saltare senza che Dantès debba morire.»
«La morte sola può separarli.» disse Fernand.
«Ragioni come uno stupido, amico mio – disse Caderousse – adesso Danglars, che è un furbo, un maligno, un greco, ti dimostrerà perché hai torto. Dimostraglielo, Danglars, ho garantito io per te. Digli che non c’è bisogno che Dantès muoia… del resto mi dispiacerebbe se morisse, Dantès. È un bravo ragazzo, io voglio bene a Dantès. Alla tua salute, Dantès!» Fernand si alzò con impazienza.
«Lascialo parlare – riprese Danglars trattenendo il catalano – anche se è ubriaco, non dice baggianate. La distanza separa quanto farebbe la morte… supponete ad esempio che tra Edmond e Mercedes ci siano i muri di una prigione: sarebbero separati né più né meno che se ci fosse una lapide.»
«Sì, ma di prigione si esce – disse Caderousse con quel poco di lucidità che gli restava, mentre cercava di intervenire nella conversazione  – e quando si esce di prigione e si porta il nome di Edmond Dantès, ci si vendica.»
«Che importa!» mormorò Fernand.
«E poi – riprese Caderousse – perché dovrebbero mettere in prigione Dantès? Non ha rubato, non ha ucciso, non ha assassinato.»
«Taci una buona volta!» disse Danglars.
«No, non voglio tacere; voglio che mi si dica perché mai dovrebbero mettere in prigione Dantès. Io voglio bene a Dantès. Alla tua salute, Dantès!» E mandò giù un altro bicchiere di vino.
Danglars seguì negli occhi ormai inespressivi del sarto il progredire della sua ubriachezza. Poi, rivolgendosi a Fernand: «Capisci – disse – che non c’è bisogno di ucciderlo?»
«Certo, non c’è bisogno se, come dicevi, ci fosse il modo di farlo arrestare.»
«Cercando bene – disse Danglars – si potrebbe trovarlo. Ma perché diavolo m’immischio? Forse la cosa mi riguarda?»
«Non so se la cosa ti riguarda – disse Fernand afferrandogli un braccio – ma so che hai qualche motivo particolare di odio contro Dantès; chi già odia non s’inganna sul sentire altrui.»
«Io? …dei motivi per odiare Dantès? Nessuno, la mia parola! Io ho visto un amico infelice e la sua infelicità mi ha commosso, ecco perché mi sono interessato. Ma poiché credi che io agisca per il mio interesse, addio, amico. Cavatela da solo.»
E Danglars fece a sua volta il gesto di alzarsi.
«No – disse Fernand trattenendolo – stai qui! M’importa poco, in fin dei conti, se odi o no Dantès: io lo odio, e non lo nascondo. Trova il modo, io eseguirò! Purché che non provochi la morte dell’uomo, o Mercedes si ucciderebbe se Dantès fosse ucciso.»
Caderousse, che aveva lasciato cadere la testa sul tavolo, rialzò la fronte e, guardando Fernand e Danglars con occhi pesanti e spenti, disse: «Uccidere Dantès… chi parla di uccidere Dantès? Io non voglio che sia ucciso, io! È mio amico… si è offerto di dividere con me il suo denaro, come io ho diviso il mio con lui… Non voglio che si uccida Dantès!»
«E chi parla di ucciderlo, imbecille! – riprese Danglars – Si sta scherzando, qui. Bevi alla sua salute – e aggiunse riempiendo il bicchiere di Caderousse – e lasciaci tranquilli.»
«Sì, sì, alla salute di Dantès! – disse Caderousse, vuotando il bicchiere – alla sua salute... alla sua salute... alla sua…»
«Ma il modo? …il modo?» disse Fernand.
«Non lo hai ancora trovato?»
«No, non hai detto che lo avresti trovato tu?»
«È vero – riprese Danglars – i francesi hanno questa superiorità sugli spagnoli: gli spagnoli ruminano, e i francesi inventano»
«Inventa, allora, inventa!» disse Fernand con impazienza.
«Cameriere! – disse Danglars – carta, penna e calamaio!»
«Carta, penna e calamaio?» mormorò Fernand.
«Sì, io sono un contabile: la penna, l’inchiostro e la carta sono i miei strumenti, senza cui non saprei fare nulla»
«È tutto su quel tavolo» disse il cameriere indicando gli oggetti richiesti.
«E allora dateceli». Il cameriere prese la carta, la penna e l’inchiostro e li posò sul tavolo sotto il pergolato. «Quando si pensa – disse Caderousse lasciando cadere la mano sulla carta, – che con questa si può ammazzare un uomo con più certezza che ad attenderlo in un bosco per assassinarlo… Ho sempre avuto più paura di una penna, di una bottiglia d’inchiostro e di un foglio di carta che non di una spada o di una pistola»
«Il buffone non è ancora ubriaco come sembra – disse Danglars – versategli ancora da bere, Fernand»
Fernand riempì il bicchiere di Caderousse che, da bravo bevitore, levò la mano dalla carta e la spostò sul bicchiere. Il catalano seguì i suoi movimenti finché Caderousse, quasi sopraffatto da un nuovo attacco di ubriachezza, lasciò cadere, il bicchiere sul tavolo.
«Ebbene…» riprese il catalano vedendo che il resto della lucidità di Caderousse cominciava a scomparire dietro all’ultimo bicchiere di vino.
«Ebbene dicevo, per esempio – riprese Danglars – che se, dopo un viaggio come quello che ha fatto Dantès e in cui è sbarcato a Napoli e all’isola d’Elba, qualcuno lo denunciasse…»
«Lo denuncerò io!» esclamò deciso il giovane.
«Sì, ma in questo caso vi farebbero firmare la dichiarazione, e vi metterebbero di fronte a chi avreste denunciato. Io vi darò gli elementi con cui sostenere la vostra accusa, ne sono certo. Ma Dantès non può restare eternamente in prigione; un giorno o l’altro uscirà, e allora quel giorno sarà terribile per chi ce lo ha fatto entrare!»
«Oh, desidero proprio – disse Fernand – che venga a sfidarmi a duello!»
«Sì, e Mercedes? Mercedes comincerebbe subito ad odiarti se soltanto tu osassi scalfire la pelle del suo amatissimo Edmond!»
«Hai ragione» disse Fernand.
«No, no – riprese Danglars, – se decidiamo una cosa del genere, è evidente, è meglio prendere con tranquillità questa penna, come sto facendo io, bagnarla d’inchiostro e scrivere con la mano sinistra, perché la grafia non sia riconosciuta, la piccola seguente denuncia…» E Danglars, facendo seguire l’esempio all’insegnamento, scrisse con la sinistra e con una scrittura contraffatta che non somigliava affatto alla sua le seguenti parole, che passò a Fernand e che questi lesse a bassa voce:

“Il signor procuratore del Re è avvisato, da un amico del trono e della religione, che tale Edmond Dantès, secondo del bastimento Pharaon, giunto questa mattina da Smirne dopo aver toccato Napoli e Portoferraio, è stato incaricato da Murat di consegnare una lettera per l’usurpatore, e dall’usurpatore di consegnarne un’altra al comitato bonapartista di Parigi. Si avrà la prova del suo delitto arrestandolo poiché si troverà tale lettera nelle sue tasche, in casa di suo padre o nella sua cabina a bordo del Pharaon.”

«Finalmente – continuò Danglars – in questo modo la tua vendetta sarà attribuita alle circostanze, in nessun modo potrebbe ricadere su di voi, e la faccenda andrebbe avanti da sola. Non ti resterebbe che piegare la lettera, come sto facendo io, scriverci sopra “Al signor procuratore del re” e tutto sarebbe finito»
E Danglars lo fece, come per scherzo.
«Sì, sarebbe tutto finito – esclamò Caderousse, che con un ultimo sforzo di lucidità aveva seguito la lettera e capiva istintivamente tutto il male che avrebbe potuto causare una simile denuncia. – sì, tutto sarebbe finito, ma sarebbe un’infamia» E allungò il braccio per prendere la lettera.
«Ma via – disse Danglars allontanando la lettera – quello che ho detto e fatto è soltanto uno scherzo; e sarei il primo a dispiacersi se dovesse capitare qualche sciagura a Dantès, al buon Dantès! Guardate…» Prese la lettera, la stropicciò un po’ con le mani e la gettò in un angolo del pergolato.
«Che sollievo – disse Caderousse – Dantès è mio amico, e non voglio che gli si faccia del male»
«E chi diavolo dovrebbe fargli del male? Certo non io né Fernand» disse Danglars alzandosi e squadrando da capo a piedi il catalano rimasto seduto, che non staccava gli occhi dal foglio di denuncia nell’angolo.
«In questo caso – riprese Caderousse – ci portino del vino, voglio bere alla salute di Edmond e della bella Mercedes»
«Hai già bevuto troppo, ubriacone – disse Danglars – e se continui sarai costretto a dormire qui perché non riuscirai a reggerti in piedi»
«Io? – disse Caderousse alzandosi con l’assenza di un ubriaco – io non riuscirò a reggermi in piedi? Scommettiamo che salgo sul campanile degli Accoules senza bilanciere?»
«E va bene – disse Danglars – scommetto, ma per domani; ora è tempo di tornare a casa. Dammi il braccio e andiamo»
«Andiamo – disse Caderousse – ma non ho bisogno del tuo braccio. Tu vieni, Fernand? Rientri con noi a Marsiglia?»
«No – rispose Fernand – torno ai Catalani»
«Fai male, vieni con noi a Marsiglia, dai!»
«Non ho niente da fare a Marsiglia, e non ci voglio andare»
«Come hai detto? Non vieni? Fai come vuoi. Vieni, Danglars, lasciamo rientrare il giovanotto al suo villaggio, visto che è ciò che vuole»
Danglars approfittò di quel momento di buona volontà di Caderousse per trascinarlo alla volta di Marsiglia; e, soltanto per lasciare a Fernand la via più facile, invece di prendere la rue Rives-Neuves prese la direzione della porta Saint-Victor. Caderousse lo seguiva barcollando, attaccato al suo braccio. Dopo una ventina di passi, Danglars si voltò e vide Fernand prendere il foglio di carta e metterselo in tasca, uscire dal pergolato e andare verso il Pillon.
«Ma che fa? – disse Caderousse –Ha mentito: ha detto che andava ai Catalani e invece va verso la città. Ehi! Fernand! Stai sbagliando strada, ragazzo mio!»
«Sei tu che stai sbagliando – disse Danglars – sta andando dritto per la strada delle Vieilles-Infermeries». «Davvero? – disse Caderousse – avrei giurato che svoltasse a destra. Decisamente il vino è un traditore»

«Andiamo, andiamo – mormorò Danglars – mi sembra che l’affare sia ben avviato e non resti altro che lasciarlo andare avanti da solo».

sabato 3 gennaio 2009

Capitolo III: I catalani

A cento passi dalla locanda dove i due amici bevevano lo spumoso vino di Lama lgue, con occhi e orecchie aperti, si trovava il piccolo villaggio dei Catalani, dietro ad un’altura spoglia e arida, per il sole e per il soffiare del maestrale.
Tempo prima, una colonia misteriosa partì dalla Spagna e giunse fino alla lingua di terra che abita ancora oggi. Non si sapeva da dove arrivasse e parlava una lingua sconosciuta. Uno dei capi, che capiva il provenzale, domandò alla Comune di Marsiglia di ceder loro quel promontorio, su cui avevano ritirato le navi come gli antichi marinai. La loro domanda fu accolta e tre mesi dopo si trovava un piccolo villaggio attorno ai dodici o quindici bastimenti che quegli stessi uomini avevano portato a terra. Il villaggio, costruito in modo bizzarro e pittoresco, di stile metà morisco e metà spagnolo, è quello che oggi è abitato dai lor discendenti, che ancora parlano ancora la lingua dei padri. Anche dopo tre o quattro secoli sono rimasti fedeli al piccolo promontorio in cui si erano imbattuti come uno stormo di uccelli di mare, senza mischiarsi alla popolazione marsigliese, sposandosi sempre tra loro e conservando usi e costumi della loro madre patria, così come ne hanno conservato la lingua. Ci seguano ora i nostri lettori attraverso una strada di questo villaggio ed entrino con noi in una di queste case, alle quali il sole ha dato all’esterno il bel colore delle foglie d’autunno come ai monumenti del paese, e all’interno uno strato di tinta gialla che forma l'unico ornamento delle Posadas spagnole. Una bella ragazza dai capelli neri come l'ebano e gli occhi liquidi di una gazzella stava in piedi e, appoggiata ad un tramezzo, sfrondava tra le sue dita sottili di disegno antico una tenera erica di cui strappava i fiori, già sparsi in parte a terra; le sue braccia nude fino al gomito, brune ma che sembravano modellate su quelle della Venere d'Arles, fremevano con impazienza febbrile, e lei batteva a terra il piede agile e inarcato, in modo da fare trasparire la forma pura e superba della gamba, ornata da un calza di cotone rosso a rombi grigi e azzurri. A tre passi da lei, sopra una cassa, c’era un robusto giovane di venti-ventidue anni che si dondolava con un movimento rozzo, con il gomito appoggiato ad un vecchio mobile tarlato, che la guardava con un'aria da cui si intuiva l'interno contrasto tra l'inquietudine e il dispetto.
I suoi occhi interrogavano; ma lo sguardo fermo e fisso della ragazza dominava il suo interlocutore. “Vediamo, Mercedes - diceva il giovane - fra poco sarà Pasqua, ecco un ottimo periodo per un matrimonio.”
“Vi ho risposto cento volte, Fernand, e dovete proprio volervi male ed essere nemico di voi stesso farmi ancora questa domanda.”
“Ebbene, ripetetelo ancora, vi prego, ripetetelo ancora, per convincermi; ditemi per la centesima volta che rifiutate il mio amore, malgrado l'approvazione di vostra madre; assicuratemi ancora una volta che vi prendete gioco della mia felicità, che la mia vita e la mia morte non valgono niente per voi. Ah, mio Dio! Aver sognato per dieci anni di essere vostro sposo, Mercedes, e perdere questa speranza, che era l’unico obiettivo della mia vita!”
“Ma io non ho mai incoraggiato questa speranza, Fernando - rispose Mercedes - non vi ho nemmeno mai fatto neanche un complimento. Vi ho sempre detto: "Io vi amo come un fratello, ma non desiderate mai da me altro, se non questa amicizia fraterna, poiché nel mio cuore c’è un altro!". Non vi ho sempre detto così, Fernand?”
“Sì, lo so bene, Mercedes - rispose il giovane - vi siete compiaciuta nei miei confronti del merito crudele della vostra franchezza. Ma dimenticate che c’è fra i catalani una legge sacra, che ordina di sposarci tra di noi.”
“V'ingannate, Fernand: non è una legge, ma una consuetudine, ecco tutto! Credetemi, non vi giova invocare questa consuetudine! Siete arruolato, la libertà che avete non è che semplice tolleranza. Da un momento all'altro potete essere chiamato al servizio militare e, una volta soldato, che fareste di me? Che fareste di una povera orfanella infelice, senza beni, che possiede solo una capanna quasi in rovina, a cui è attaccata qualche rete usata, miserabile eredità lasciata da mio padre a mia madre, e da mia madre a me? Da un anno è morta, pensate, Fernand, e io vivo quasi di pubblica carità. Qualche volta fingete che io vi sia utile, solo per darmi il diritto di dividere la vostra pesca; io accetto, perché siete il figlio del fratello di mio padre, perché noi siamo stati allevati assieme e, soprattutto, perché vi darei troppo dispiacere se rifiutassi. Ma capisco bene che il pesce che vado a vendere e dal quale traggo il denaro per comprare la canapa che filo, Fernand, altro non è che elemosina.”
“E che importa, Mercedes! Così povera e sola come siete mi piacete assai più che la figlia del più superbo armatore, o del più ricco banchiere di Marsiglia. Cosa desidero? Una donna onesta ed atta alle faccende domestiche. Chi potrei trovar meglio di voi da questo punto di vista?”
“Fernand - rispose Mercedes scuotendo la testa - si diventa incapaci nelle faccende domestiche e non si può garantire di restare una moglie per bene quando si ama un altro uomo, che non è il marito. Accontentatevi della mia amicizia perché, ve lo ripeto, è tutto quello che posso promettervi, e io non prometto che quanto sono sicura di mantenere.”
“Sì, lo capisco. Voi sopportate pazientemente la vostra miseria, ma avete paura della mia. Ebbene, Mercedes, se mi amerete tenterò la fortuna; voi mi porterete felicità, ed io diventerò ricco. Posso migliorare il mio stato di pescatore, posso entrare come commesso in una banca, posso diventare negoziante.”
“Voi non potete tentare niente di tutto ciò, Fernand: voi siete soldato! Se siete ancora qui, ai Catalani, è perché non c’è guerra; restate dunque pescatore, non fate sogni che renderebbero ancora più terribile la realtà, e accontentatevi della mia amicizia, perché io non posso darvi altro.”
“Avete ragione, Mercedes… sarò un marinaio! Avrò, invece del costume dei nostri padri, che disprezzate, un cappello col fiocco, una camicia a righe e una giacca azzurra con le ancore sui bottoni... Non è così che bisogna essere vestito per piacervi?”
“Cosa volete dire? - domandò Mercedes con uno sguardo imperioso – Cosa volete dire? Non vi capisco.”
“Voglio dire, Mercedes, che siete così inflessibile e crudele con me perché aspettate qualcuno vestito così. Ma quello che voi aspettate è incostante; e se non lo è, il mare lo è per lui.”
“Fernand! - esclamò Mercedes - io vi credevo buono e mi sono ingannata! Avete un cuore cattivo, invocate solo per la vostra gelosia la collera di Dio. Ebbene sì, non vi nascondo nulla, aspetto e amo colui che dite e se non tornerà, invece di accusarlo di incostanza, dirò che è morto amandomi.”
Il giovane Catalano fece un gesto di rabbia.
“Vi capisco, Fernand. Ve la prendereste con lui perché non vi amo, incrocereste il coltello catalano col suo pugnale. Ma cosa ci guadagnereste? Perdereste la mia amicizia uscendo sconfitto e vedreste cambiarsi in odio la mia amicizia uscendo vincitore. Credetemi, sfidare a duello un uomo è un pessimo mezzo per piacere alla donna che ama quell'uomo. No, Fernand, voi non vi lascerete trasportare da così perversi pensieri; se non potete avermi in moglie, vi accontenterete di avermi amica e sorella. D'altronde - aggiunse commossa e con gli occhi bagnati dalle lacrime - aspettate, aspettate, Fernand, lo avete detto or ora: il mare è perfido e sono già quattro mesi che si susseguono burrasche su burrasche!”
Fernand restò impassibile. Non cercò di asciugare le lacrime che scorrevano sulle guance di Mercedes, anche se avrebbe dato una libbra del suo sangue per ciascuna di quelle lacrime che scorrevano per un altro. Si alzò, fece un giro nella capanna, ritornò, si fermò davanti a Mercedes con lo sguardo cupo e con i pugni fortemente serrati.
“Vediamo, Mercedes – disse – ditemi, ancora una volta... Avete deciso?”
“Io amo Edmond Dantès - disse freddamente la ragazza - e nessuno se non Edmond sarà il mio sposo!”
“E lo amerete per sempre?”
“Finché avrò vita!”
Fernand chinò la testa scoraggiato ed emise un sospiro che sembrò un gemito. Ad un tratto, alzando la fronte, coi denti serrati e le narici socchiuse:
“Ma se è morto?”
“Se è morto, morirò anch’io!”
“E se vi dimentica?”
“Mercedes! - esclamò una voce felice proveniente dall’esterno della capanna - Mercedes!”
“Ah - esclamò la ragazza arrossendo di gioia, esultando d'amore - vedi bene che non mi ha dimenticata, eccolo qua!”
Si lanciò verso la porta e aprì gridando:
“Vieni, Edmond, eccomi!”
Fernand indietreggiò pallido e fremente, come fa un viaggiatore alla vista di un serpente e, urtando nella cassa, ci ricadde a sedere. Edmond e Mercedes erano tra le braccia l'una dell'altro. Il sole ardente di Marsiglia, che penetrava attraverso l'apertura della porta, li inondava in un torrente di luce. Sulle prime non videro niente di ciò che li circondava: una felicità immensa li isolava da questo mondo; non si parlavano che con quelle parole tronche che sono lo slancio della gioia più pura, così istintive e naturali da sembrare espressioni di dolore.
Ad un tratto Edmond scorse nell’ombra la figura pallida e minacciosa di Fernand; con un moto di cui egli stesso forse non si era accorto, il catalano aveva messo la mano sul coltello alla cintura.
“Scusate - disse Dantès inarcando le sopracciglia - non avevo notato che eravamo in tre.”
Poi volgendosi a Mercedes domandò:
“Chi è questo signore?”
“Sarà il tuo migliore amico, perché è il mio. È mio cugino e mio fratello, è Fernand, l'uomo che dopo di te, Edmond, amo di più su questa terra.”
Edmond, senza abbandonare Mercedes di cui teneva una mano, stese con un movimento di cordialità l'altra mano al catalano. Ma Fernand, invece di corrispondere al gesto amichevole, restò muto e immobile come una statua. Allora Edmond posò il suo sguardo sospettoso prima su Mercedes, commossa e tremante, poi su Fernand cupo e minaccioso. Questo solo sguardo gli fece tutto comprendere. La collera salì alla sua fronte.
“Non sarei venuto con tanta fretta da te, Mercedes, se avessi saputo di trovarci un nemico.”
“Un nemico! - esclamò Mercedes rivolgendo uno sguardo preoccupato al cugino - un nemico in casa mia tu dici, Edmond? Se lo credessi, ti darei subito il mio braccio e me ne andrei a Marsiglia, abbandonando questa casa per non riporvi mai più il piede.”
L'occhio di Fernand ebbe un lampo.
“Se ti accadesse una disgrazia, mio Edmond - continuò lei con lo stesso implacabile sangue freddo, che provava a Fernand che la ragazza aveva saputo leggere fin nel profondo dei suoi sinistri pensieri - se ti accadesse qualche disgrazia, salirei sul capo di Morgiou e mi getterei sugli scogli con la testa in avanti.”
Fernand divenne spaventosamente pallido.
“Ma tu ti sbagli, Edmond - continuò ancora - tu qui non hai nemici: qui non c'è che Fernand, mio fratello, che ti stringerà cordialmente la mano, come ad un amico.”
A queste parole la ragazza fissò il suo sguardo imperioso sul catalano che, come stregato da questo sguardo, si accostò lentamente a Edmond e gli tese la mano. Il suo odio, pari ad un’onda impotente per quanto furiosa, si infranse contro l'ascendente che questa donna esercitava su lui. Ma appena ebbe toccata la mano di Edmond, sentì di aver fatto tutto ciò che poteva e, slanciandosi fuori della capanna correndo come un insensato e intrecciandosi le mani nei capelli esclamava:
“Oh, chi mi libererà da quest'uomo? Povero me! Povero me!”

 “Ehi, catalano! Ehi, Fernand, dove corri?” disse una voce.
Il giovane si fermò, si guardò intorno riconobbe Caderousse seduto a tavola con Danglars sotto un pergolato di foglie di vite.
“Ehi! - disse Caderousse - Perché non vieni qui? Hai così tanta fretta da non avere il tempo di dire buongiorno agli amici?”
“Soprattutto quando hanno una bottiglia quasi piena davanti…” soggiunse Danglars.
Fernand guardò quei due uomini con occhi assenti e non rispose nulla.
“Sembra proprio stordito - disse Danglars, urtando il ginocchio di Caderousse. - possibile che ci siamo sbagliati e che Dantès trionfi in barba a quanto previsto?”
“Diavolo, dobbiamo saperlo! - disse Caderousse e, volgendosi verso il catalano - ebbene, ti decidi?” Fernand asciugò il sudore che gli grondava dalla fronte ed entrò lentamente sotto il pergolato. L'ombra sembrava restituire un po' di calma ai suoi sensi e la freschezza un poco di sollievo al corpo spossato.
“Buongiorno – disse - Mi avete chiamato, non è vero?”
E fu piuttosto un cadere che un sedersi il suo, su di una delle panche attorno alla tavola.

“Ti ho chiamato perché correvi come un pazzo, e perché ho avuto paura che andassi a gettarti in mare - disse ridendo Caderousse - che diavolo! Quando uno ha degli amici, non è soltanto per offrir loro un bicchiere di vino, ma anche per impedirgli di andare a bere tre o quattro pinte d'acqua.”
Fernand mandò un gemito che sembrava un singhiozzo e lasciò cadere la testa sopra le braccia incrociate sulla tavola.
“Ebbene! Vuoi che lo dica io, Fernand - riprese Caderousse intavolando la conversazione con quella villana brutalità della gente del popolo, alla quale la curiosità fa dimenticare ogni specie di diplomazia - hai l'aria di un amante sconfitto.” E accompagnò questo scherzo con una forte risata.
“Balle - intervenne Danglars - un giovanotto dotato della sua forza non è fatto per essere sconfitto in amore; tu ti prendi gioco di lui, Caderousse.”
“Niente affatto - riprese l’altro - non senti come sospira? Coraggio, Fernand - disse Caderousse - alza in alto il naso e rispondi. È scortese non rispondere agli amici che ti chiedono come stai.”
“La mia salute va bene” disse Fernand stringendo i pugni, ma senza alzare la testa.
“Ah, vedi, Danglars - disse Caderousse, strizzando un occhio all'amico - ecco com’è la faccenda: Fernand, che vedi qui, e che è un buono e bravo catalano, uno dei migliori pescatori di Marsiglia, è innamorato di una bella ragazza che si chiama Mercedes, ma sfortunatamente sembra che la bella ragazza sia innamorata del secondo del Pharaon. E siccome questo battello è entrato oggi stesso nel porto, tu capisci...”
“No, io non capisco niente” disse Danglars.
“Il povero Fernand avrà ricevuto il suo congedo.”
“E quindi? - disse Fernand alzando la testa e guardando Caderousse come in cerca di qualcuno con cui
sfogare la sua collera - Mercedes non dipende da nessuno, non è vero? Dunque è libera di amare chi vuole.”
“Ah! Se tu la prendi così - disse Caderousse - è tutta un’altra cosa. Ti credevo un catalano, e mi era stato detto che i catalani non si lasciano soppiantare da un rivale, e che specialmente Fernand fosse un uomo terribile nella vendetta.”
Fernand sorrise con un sorriso di pietà.
“Un innamorato non è mai terribile” disse.
“Povero ragazzo - riprese Danglars, fingendo di compiangerlo dal più profondo dell'anima - che vuoi tu? Lui non si aspettava di vedere ritornare Dantès così presto. É forse infedele, o altro? Queste cose sono tanto più sconvolgenti quanto più ci accadono all’improvviso, e senza che ce le aspettassimo.”
“In fede mia - disse Caderousse che beveva parlando, e su cui il vino di Malaga cominciava a fare il suo effetto - Fernand non è il solo che viene afflitto dal felice arrivo di Dantès. Non è vero, Danglars? Non importa – aggiunse versando un bicchiere di vino a Fernand e riempiendo il proprio per l'ottava o decima volta, mentre Danglars aveva appena assaggiato il suo - non importa, e nel frattempo lui si sposa Mercedes: almeno ritorna per questo.”
Danglars fissava uno sguardo scrutatore per scoprire cosa provasse il cuore del giovane, sul quale le parole di Caderousse cadevano come piombo liquido.
“E quando si faranno le nozze?” domandò.
“Oh, non sono ancor fatte…” mormorò Fernand.
“No, ma si faranno - disse Caderousse - così come Dantès sarà capitano del Pharaon. Non è così, Danglars?”
Danglars rabbrividì a questo colpo inatteso e si voltò verso Caderousse per capire se era stato premeditato, ma non lesse che invidia, su quel viso fattosi quasi ebete dall'ubriachezza.

“Ebbene - disse, riempiendo i bicchieri - beviamo dunque alla salute del capitano Edmond Dantès, marito della catalana!” Caderousse portò il bicchiere alla bocca e con mano pesante lo tracannò in un fiato. Fernand prese il suo e lo ruppe gettandolo a terra. "Eh! eh! eh! - disse Caderousse - cosa vedo sull'alto del promontorio, laggiù, verso i Catalani? Guarda tu, Fernand, che hai una vista migliore della mia; credo di cominciare a veder doppio, sai che il vino è un traditore... Si direbbe che i due amanti passeggino, tenendosi vicini vicini! Il cielo mi perdoni! Non sanno d'esser visti... Eccoli!”
Danglars si godeva ogni piccolo cenno di sofferenza sul viso di Fernand, che si scomponeva in modo assai evidente.
“Li riconoscete, Fernand?” disse.
“Sì - rispose questi con flebile voce - sono Edmond e Mercedes.”
“Ah, vedete - disse Caderousse - li avevo riconosciuti! Che bella ragazza! E diteci quando si faranno le nozze, poiché Fernand si è ostinato a non volercelo dire.”
“Vuoi tacere? - disse Danglars, simulando di trattenere Caderousse, che con l’audacia dell'ubriaco si sforzava di piegarsi fuori dal pergolato - Cerca di tenerti dritto, e lascia agli innamorati la loro intimità. Guarda Fernand e prendi esempio da lui, è un uomo ragionevole.”
Forse Fernand, ormai al limite e punto da Danglars come il toro dai giostratori, stava per slanciarsi: si era già alzato e sembrava raccogliersi per scagliarsi contro il suo rivale, ma Mercedes, ridente e accorta, alzò la sua bella testa e fece brillare il suo sguardo limpido.
 Allora Fernand si ricordò della minaccia che aveva fatto di morire se Edmond fosse morto, e ricadde scoraggiato sulla panca. Danglars guardò quei due uomini: l'uno imbestialito dall'ubriachezza, l'altro dominato dall'amore.
“Non otterrò niente da questi imbecilli – mormorò - e ho una gran paura di essere qui fra un ubriaco ed un poltrone. Ecco un invidioso che si ubriaca con del vino, mentre dovrebbe farlo con il fiele; ecco un grande imbecille al quale viene tolta la sua bella da sotto al naso, e si accontenta di piangere e di lamentarsi come un ragazzo: e sì che ha gli occhi fulminanti degli spagnoli, dei siciliani e dei calabresi, che sanno vendicarsi così bene, e dei pugni che romperebbero la testa a un bue come la mazza del macellaio! Decisamente il destino di Edmond è dolce: sposerà la ragazza, sarà fatto capitano e ci deriderà, a meno che...- un sinistro sorriso affiorò alle labbra di Danglars - a meno che io non intervenga...” concluse.
“Ehi! - continuava a gridare Caderousse, mezzo alzato e con i pugni sulla tavola - ehi, Edmond, non hai visto dunque i tuoi amici, o sei già diventato così superbo da non parlare con loro?”
“No, mio caro Caderousse - rispose Dantès - io non sono superbo, sono felice! E la felicità acceca, credo, assai più della superbia!”
“Finalmente! Ecco una bella spiegazione - disse Caderousse – oh, buongiorno signora Dantès.”
Mercedes salutò con serietà.
“Questo ancora non è il mio nome – disse - e nel mio paese è di cattivo auspicio chiamare le ragazze con il nome del fidanzato prima che sia loro marito. Vi prego dunque di chiamarmi Mercedes.”
“Bisogna perdonare il buon vicino - disse Dantès - si sbaglia di poco.”
“Dunque le nozze sono vicine, Dantès?” disse Danglars salutando i due giovani.
“Il più presto possibile, signor Danglars: oggi ci metteremo d’accordo con mio padre e al massimo domani il pranzo di fidanzamento, qui alla Resérve. Spero che gli amici ci saranno, e ciò vuol dire che siete invitato, signor Danglars, e tu, Caderousse, non mancherai.”
“Fernand - disse Caderousse ridendo - sarà invitato anche lui?”
“Il fratello della mia sposa è anche mio fratello - disse Edmond - e sia io che Mercedes saremmo molto dispiaciuti se si allontanasse da noi in questa circostanza.”
Fernand aprì la bocca per rispondere, ma la voce gli si estinse in gola e non riuscì ad articolare le parole. “Oggi gli accordi, domani o dopo il fidanzamento! ...Che diavolo! Capitano, voi avete molta fretta.”
“Danglars - rispose Edmond sorridendo - vi dirò ciò che Mercedes ha detto a Caderousse: non mi date un titolo che non mi appartiene... Mi porterebbe cattivo augurio.”
“Scusate - precisò Danglars - dicevo semplicemente che voi avete molta fretta. Che diavolo! C’è tempo; il Pharaon non metterà la vela che fra tre mesi.”
“Si ha sempre fretta di essere felici; quando uno ha sofferto lungamente, fa fatica a credere alla felicità. Ma non solo l’egoismo che mi fa fare tutto con una certa premura; occorre che io vada a Parigi.”
“Ah davvero? A Parigi? É la prima volta che ci andate, Dantès?”
“Sì.”
“Ci andate per affari?”
“Non per conto mio; è un'ultima commissione del nostro capitano Leclère da adempiere; voi capirete, Danglars, che questa è cosa sacra. D'altronde, state tranquillo che ci metterò solo tempo necessario per l'andata e il ritorno.”
“Sì, sì capisco - disse ad alta voce Danglars, poi soggiunse fra sé abbassando la voce - a Parigi, senza dubbio, per consegnare la lettera che gli consegnò il Capitano. Ah, perbacco! Questa lettera mi fa nascere un'idea, un'eccellente idea, perbacco! Signor Dantès, amico mio, non hai ancora dormito a bordo del Pharaon nella cabina numero 1. - poi, volgendosi a Edmond che già si allontanava - Buon viaggio!” gli gridò dietro.

“Grazie...” rispose Edmond girandosi indietro con un gesto amichevole. Quindi i due innamorati continuarono la loro strada felici e tranquilli come due anime che salgono al cielo.