lunedì 5 ottobre 2015

L'interrogatorio (II)

E il capitolo settimo finisce in un anticlimax terribile, con un Villefort che pare folgorato da un'idea malsana e le sorti di Dantès ancora in bilico... che succederà?
«Sì, avete ragione, voi dovete conoscere gli uomini meglio di me, non è impossibile. Ma se questi invidiosi dovessero essere tra i miei amici, vi confesso che preferirei non conoscerli per non essere costretto a odiarli.»
«Sbagliate. Bisogna sempre tenere, per quanto possibile, gli occhi aperti su quanto accade intorno, e in verità mi sembrate un così bravo giovane che per voi contravverrò alle regole ordinarie della giustizia e vi schiarirò le idee facendovi vedere la denuncia per la quale siete qui. Ecco il foglio in cui vi si accusa, riconoscete la grafia?»
E Villefort tirò fuori da una tasca la lettera e la porse a Dantès. Dantès guardò, lesse. Una nube gli oscurò la fronte. Poi disse:
«No, signore. Non conosco questa grafia, che seppure contraffatta è piuttosto franca. In ogni caso è stata una mano molto abile a vergarla. Sono ben fortunato – aggiunse guardando con riconoscenza Villefort – a trattare con un uomo come voi, perché il calunniatore è davvero un nemico.»
Vedendo il lampo che passò negli occhi del giovane mentre diceva queste parole, Villefort poté riconoscere quanta energia violenta era nascosta sotto quell’apparente dolcezza.
«Ora – disse Villefort – rispondetemi francamente e non come un uomo portato al suo giudice, ma come un uomo che si trovi in una posizione ingiusta a un altro uomo che provi ad interessarsi a lui… Cosa c’è di vero in quest’accusa anonima?»
E Villefort gettò con disprezzo la lettera che Dantès gli aveva restituito sullo scrittoio.
«Tutto e niente. Ecco la pura verità, sul mio onore di marinaio, sul mio amore per Mercedes, sulla vita di mio padre.»
«Parlate, signore» disse Villefort ad alta voce. E aggiunse tra sé: “Spero che, se Renée potesse vedermi, sarebbe contenta di me e non mi definirebbe più un tagliatore di teste!”
«Ebbene, lasciata Napoli il capitano Leclère cadde vittima di una febbre cerebrale. Non avendo un medico a bordo e non volendo lui fermarsi in nessun punto della costa frettoloso com’era di raggiungere l’isola d’Elba, la sua malattia peggiorò al punto che alla fine del terzo giorno, sentendosi vicino alla fine, mi chiamò:
“Mio caro Dantès, – mi disse – giuratemi sul vostro onore di fare tutto quello che vi dirò, si tratta di una questione del più alto interesse.”
“Ve lo giuro, capitano.” risposi.
“Ebbene, siccome dopo la mia morte spetta a voi il comando del bastimento in qualità di secondo, prenderete dunque il polso della nave e la dirigerete all’isola d’Elba, sbarcherete a Portoferraio, chiederete del gran maresciallo, gli darete questa lettera e forse lui ve ne consegnerà un’altra e vi incaricherà di qualche missione. Questa missione, che era riservata a me, la eseguirete voi al mio posto, Dantès, e tutto l’onore sarà vostro.”
“Lo farò, capitano, ma forse non riuscirò a raggiungere il gran maresciallo così facilmente come credete.”
“Ecco un anello che ve lo renderà tanto facile.” Mi consegnò un anello. Fece appena in tempo, perché poco dopo lo prese il delirio e il giorno seguente era morto.»
«E voi cosa avete fatto, a quel punto?»
«Ciò che dovevo fare, signore, quello che chiunque avrebbe fatto al mio posto. In qualsiasi situazione le preghiere di un moribondo sono sacre, ma per un marinaio le preghiere di un superiore sono ordini da eseguire. Feci dunque vela verso l’isola d’Elba, dove arrivai il giorno seguente, consegnai a bordo l’equipaggio e scesi a terra da solo. Come avevo previsto mi fecero all’inizio qualche difficoltà per introdurmi dal gran maresciallo; ma gli feci portare l’anello che serviva a farmi riconoscere e tutte le porte mi si spalancarono dinnanzi. Mi ricevette, mi interrogò sulle ultime circostanze della morte del povero Leclère e, come questi aveva previsto, mi consegnò una lettera ordinandomi di portarla di persona a Parigi. Lo promisi, perché quello era compiere le ultime volontà del mio capitano. Arrivato a terra sbrigai rapidamente tutti gli impegni di bordo e poi corsi a trovare la mia fidanzata, che trovai più bella e amorosa che mai. Sotto la protezione del signor Morrel superammo tutte le difficoltà ecclesiastiche. E alla fine, signore, stavo partecipando come vi ho detto al pranzo del mio fidanzamento. Mi sarei sposato tra un’ora e domani sarei partito per Parigi, se non per il fatto di essere stato arrestato oggi, sulla base di un’accusa che mi pare anche voi disprezziate quanto me.»
«Sì, sì – mormorò Villefort – quello che dite può essere vero e se siete colpevole lo siete solo d’imprudenza, di un’imprudenza tuttavia legittimata dagli ultimi ordini del vostro capitano. Datemi pure la lettera che vi è stata consegnata all’isola d’Elba, giuratemi sul vostro amore che vi presenterete alla prima requisitoria e andate a raggiungere i vostri amici.»
«Quindi sono libero, signore?» esclamò Dantès al colmo della gioia.
«Sì, ma prima datemi la lettera.»
«Dev’essere davanti a voi, signore, perché me l’hanno presa con tutto il resto dei documenti, ne riconosco alcuni in quel mucchio.»
«Aspettate – disse il sostituto a Dantès che stava prendendo guanti e cappello – a chi era indirizzata?»
«Al signor Noirtier, rue Coq-Héron, Parigi.»
Un fulmine dal cielo dritto su Villefort non lo avrebbe colpito in un modo più rapido e inatteso. Si lasciò cadere sulla sedia dalla quale si era alzato un poco per prendere i documenti confiscati a Dantès, prese a scorrerli precipitosamente e prese la lettera fatale, sulla cui gettò uno sguardo del più autentico terrore.
«Signor Noirtier, rue Coq-Héron, n° 13.» mormorò impallidendo sempre di più.
«Sì, signore – rispose Dantès meravigliato – lo conoscete?»
«No – rispose prontamente Villefort – un fedele suddito del re non conosce i cospiratori.»
«Si tratta dunque di una cospirazione? – chiese Dantès che si trovava ora immerso, dopo essersi creduto libero, in un terrore più grande del precedente – Comunque signore, ve l’ho detto: ignoravo del tutto il contenuto del dispaccio che portavo.»
«Sì – riprese Villefort con voce sorda – ma voi sapete il nome del destinatario!»
«Ma signore, per consegnare una lettera di persona dovrò pur sapere a chi.»
«E avete mostrato la lettera a qualcuno?» disse Villefort, che diventava sempre più pallido con l’avanzare della lettura.
«A nessuno, signore. Sul mio onore.»
«Nessuno sa quindi che avevate una lettera proveniente dall’isola d’Elba indirizzata al signor Noirtier?» «Nessuno signore, a parte chi me l’ha consegnata.»
«È troppo, questo è davvero troppo!» mormorò Villefort.
La fronte di Villefort si oscurava sempre più mentre leggeva. Le sue labbra bianche, le sue mani tremanti, i suoi occhi ardenti gettavano Dantès nella più dolorosa apprensione. Dopo la lettura Villefort si lasciò cadere la testa tra le mani e rimase fermo per un istante, annichilito.
«Oddio! Che c’è signore?» chiese timidamente Dantès.
Villefort non rispose, ma dopo qualche istante risollevò il viso pallido e scomposto e rilesse una seconda volta la lettera.
«E voi dite che ignorate il contenuto di questa lettera?» riprese Villefort.
«Sul mio onore, vi ripeto signore – disse Dantès – che non so nulla. Ma che cos’avete, dio mio! State male! volete che suoni il campanello? Che chiami qualcuno?»
«No – disse Villefort prontamente – no. Non fate nulla, non dite una parola. È mio compito dare ordini, non vostro.»
«Signore – disse Dantès mortificato – era solo per esservi d’aiuto, tutto qui.»
«Non ho bisogno di niente, è un malessere passeggero, ecco tutto. Occupatevi di voi e non di me. Rispondete.»
Dantès aspettava la domanda preannunciata da quelle parole, ma inutilmente. Villefort ricadde sulla sedia, si passò una mano fredda sulla fronte madida di sudore e per la terza volta si mise a leggere la lettera.
«Oh! Se in verità conoscesse il contenuto di questa lettera – mormorò – e un giorno venisse a sapere che Noirtier è il padre di Villefort, io sono perduto, perduto per sempre!» E di tanto in tanto guardava Edmond, come se il suo sguardo avesse potuto infrangere la barriera invisibile che racchiude nel cuore quei segreti che la bocca non dice.
«Niente esitazione, la strada è questa!» esclamò a un tratto.
«Ma, in nome del cielo, signore. – riprese il giovane sventurato – Se ancora dubitate di me o se avete dei sospetti, interrogatemi! Sono pronto a rispondervi.»
Villefort fece un notevole sforzo per controllarsi e con un tono che avrebbe voluto sicuro:
«Signore – disse – dal vostro interrogatorio risultano sospetti di gravi reati a vostro carico. Non potrò quindi, come prima speravo, di mettervi subito in libertà. Prima di concedervi tale permesso devo consultare il giudice istruttore. In ogni caso avete visto come vi ho trattato.»
«Oh! sì, signore – esclamò Dantès – e vi ringrazio perché per me siete stato un amico, più che un giudice.» «Ebbene, vi tratterrò prigioniero ancora per un po’, il meno possibile. Il principale atto d’accusa che esiste contro di voi è questa lettera, e vedete… - Villefort si avvicinò al caminetto, gettò la lettera nel fuoco e rimase immobile finché fu ridotta in cenere. - E voi vedete – continuò – che ormai non esiste più.»
«Oh! Signore, – esclamò Dantès – voi siete qualcosa di più della giustizia. Siete la bontà in persona!»
«Ma ascoltatemi – continuava Villefort – dopo quanto ho fatto capite bene che potete avere completa fiducia in me, non è vero?»
«Signore, ordinate e io eseguirò i vostri ordini.»
«No – disse Villefort avvicinandosi al giovane – no, non sono ordini che voglio darvi. Sono, lo capite, dei consigli.»
«Dite, e io farò come fossero ordini.»
«Vi farò trattenere fino a stasera al palazzo di giustizia. Forse verrà qualcun altro a interrogarvi, allora dite tutto quello che avete detto a me, ma non fate una parola su quella lettera.»
«Ve lo prometto, signore». E stavolta sembrava fosse Villefort a supplicare, ed era l’imputato a rassicurare il giudice.
«Capite – disse gettando uno sguardo sulle ceneri che conservavano ancora la forma della carta e volteggiavano sopra le fiamme – ora che quella lettera è bruciata, solo noi e voi sappiamo che è esistita. Non la vedrete mai più: negate dunque se qualcuno ve ne parla, negate sicuri e sarete salvo.»
«Negherò, signore, state tranquillo.» disse Dantès.
«Bene, bene!» disse Villefort avvicinando la mano al cordone del campanello. Poi, fermandosi subito prima di suonare:
«Era la sola lettera che avevate?» disse.
«L’unica.»
«Giuratelo.»
Dantès stese la mano.
«Lo giuro.» disse.
Villefort suonò. Il commissario di polizia entrò. Villefort si avvicinò al pubblico ufficiale e gli disse qualche parola all’orecchio, il commissario rispose con un semplice cenno della testa.
«Seguitelo, signore.» Disse Villefort a Dantès.
Dantès s’inchinò, rivolse un ultimo sguardo di riconoscenza a Villefort e uscì. Appena la porta si richiuse alla sua uscita, a Villefort mancarono le forze e cadde quasi svenuto sulla sedia. Poi, dopo un attimo:
«Oh, mio Dio – mormorò – da cosa dipendono la vita e la fortuna! Se il procuratore del re fosse stato a Marsiglia o se fosse stato chiamato il giudice istruttore invece del sostituto procuratore, sarei perduto. E quel foglio, quel maledetto foglio mi avrebbe precipitato nell’abisso. Ah, padre mio, padre mio. Sarete dunque sempre un ostacolo alla mia felicità in questo mondo? Dovrò lottare in eterno con il vostro passato?»
Poi, d’un tratto, un strana luce parve splendere nei suoi occhi e riaccese il suo viso. Un sorriso gli si aprì sulle labbra, i suoi occhi da stravolti divennero fissi, quasi si soffermassero su un pensiero.
«Sì – disse – quella lettera poteva rovinarmi, ma forse farà la mia fortuna. Via, Villefort, all’opera!»
E dopo essersi assicurato che l’imputato non si trovava più nell’anticamera, il sostituto procuratore del re uscì a sua volta e si incamminò veloce verso la casa della sua fidanzata.

A lunedì prossimo, con il capitolo ottavo, in cui scopriremo le bellezze gotiche del castello sull'isola di If.

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